Carissimi, siamo lieti di comunicarvi una decisione presa
dopo l’intervento della Diocesi che riguarda la presenza e l’operatività dell’Associazione
e del Consultorio.
Si tratta essenzialmente di un cambio di sede.
La nuova struttura che risponde meglio a tutti i nostri bisogni si trova aBastia Umbra, di fronte l’entrata di Umbria Fiere, in una palazzina denominata Centro diocesano IdeaAzione, in via delle Nazioni, 37.
Si coglie l’occasione per esprimere la profonda gratitudine
alla Diocesi che da sempre ha dato il suo sostegno sia per la sede di Palazzo,
sia per questa nuova sede a Bastia.
Anche se la giornata del consulente familiare è passata continua il lavoro del consultorio, ecco una breve intevista di Angela Passetti su cosa fa un consulente familiare
Innanzitutto chi è il consulente
della coppia e della famiglia (o semplicemente consulente familiare)?
Il
Consulente della coppia e della famiglia è il professionista socio
educativo,che con metodologie specifiche aiuta i singoli (bambini adolescenti,
adulti), la coppia (coniugale o genitoriale), il nucleo familiare a mobilitare, nelle loro
dinamiche relazionali , le risorse interne ed esterne per affrontare le
situazioni difficili nel rispetto delle
convinzioni etiche dell’utente.
Che tipo di esperienza è una consulenza familiare?
La
consulenza familiare è proprio un’esperienza
relazionale che si svolge nel Qui ed Ora: cerchiamo di aiutare la persona a
concentrarsi sul suo presente, sul momento di crisi o difficoltà che vive, per
dare un senso a ciò che sta accadendo.
E in che modo può essere d’aiuto un
consulente?
Il
metodo che usiamo si chiama “ascolto
attivo”, caratterizzato da un intervento non direttivo, empatico e non
giudicante che permette di seguire un percorso preciso per sviluppare una
consapevolezza di ciò che sta succedendo; per individuare di un obiettivo da
perseguire; far emergere le risorse proprie della persona, che nel momento di
difficoltà appariranno offuscate; sostenere la persona nell’attivazione di
prendersi la responsabilità delle scelte che man mano lo porteranno al
cambiamento desiderato.
Sembra qualcosa di molto bello! Chiunque può chiedere
di iniziare il percorso?
Possono
accedere tutti coloro che hanno necessità di essere accompagnati nel qui ad ora
a superare il momento di difficoltà,
indipendentemente dalla cultura, dalla condizione sociale ed economica, dalla
religione o provenienza.
Che preparazione deve avere un
consulente?
Il
percorso di formazione dura 3 anni, ed è al tempo stesso teorico ed
esperienziale. Il consulente, lavora prima di tutto sulla propria esperienza di
vita, quindi si appresta a superare gli esami richiesti, per conseguire il diploma
valido ai sensi di legge e riconosciuto dall’AICCeF. Al termine dei 3 anni di
scuola si svolge un tirocinio seguito da una continua formazione.
Non è poco! Di sicuro c’è un gran lavoro
dietro tutto questo. Come si regge la struttura?
La
maggior parte di noi è iscritta all’AICCeF, che ci forma e ci tutela ed é
iscritta al CoLAP. La consulenza si svolge per lo più con un sistema di
volontariato e, pertanto, non chiediamo un compenso per noi, ma solo una libera
offerta per il consultorio.
Ci sono consultori AICCEF in Umbria?
Questi sono i consultori AICCEF presenti in Umbria: l’Associazione “Pro Familia” a Bastia Umbra, il centro “Amoris Laetitiae” di Terni, quelli di Città di Castello, Gubbio e Foligno.
Chi devo contattare per avere maggiori
informazioni, se sono interessato a fare questa esperienza?
Nella
terra delle emozioni un luogo privilegiato da visitare è la gioia; a tratti, nel
fluire quotidiano scandito da impegni e pensieri, sembra una meta faticosa da raggiungere.
È un posto meraviglioso nel quale addentrarsi senza un programma di viaggio
prestabilito, ma provando il diletto di lasciarsi incantare. Il termine, dal
francese joie e dal latino gaudia, indica uno stato di
contentezza intima, che pervade la persona di esultanza e piacere e che si
esprime con un linguaggio vitale, attraverso segnali precisi del volto e del
corpo. La gioia desta, illumina, rinnova. La sua natura è potente perché
proviene dalle profondità dell’animo, è intensa perché nasce improvvisa per accendere
lo sguardo di chi la prova, spingendolo a sollevare gli occhi verso i desideri;
è, d’altro canto, effimera nella sua intrinseca temporaneità, ma permane
indelebile nella memoria: la bellezza di quegli attimi di felicità divengono
risorsa, spinta verso la ricerca di pienezza. Si prova tale emozione fin da
piccolissimi, quando si riesce a compiere qualcosa o si sperimenta uno sguardo amorevole
da parte di chi accudisce. La gioia dei bambini è spesso considerata scontata,
come se detenessero un tesoro che da grandi non si ricorda dove sia stato
nascosto. Il loro sorriso sgorga fresco per un’attitudine alla meraviglia: un
abbraccio più stretto, una parola dolce, un divertimento condiviso. I piccoli
hanno bisogno che anche questa emozione così desiderabile venga riconosciuta
affinché possano costruire una base emotiva sicura. Un genitore accompagna il
figlio nel vissuto, lo fa risuonare, gli offre la sapienza di chi sa quanto
accade, gli permette di sostare insieme nei differenti luoghi del sentire.
In
consulenza si realizza un percorso simile nel quale la gioia rappresenta un
punto di forza: all’inizio, benché appaia lontana, può essere toccata attivando
la memoria delle esperienze pregresse; diviene realtà presente grazie alla
sperimentazione del rapporto autentico di fiducia, tramite l’acquisizione di
consapevolezza di sé, nel raggiungimento di obiettivi graduali.
La
gioia comporta apertura, perché la sua radice raggiunge le profondità dell’animo
solo grazie alla relazione. È un’emozione piacevole, confortevole: tutto appare
acceso di colori, ma mai banale. Molti adulti hanno come la percezione di
averla accantonata, perché sono affaticati da pensieri e mansioni routinarie, a
volte si sentono oppressi; si ha l’idea che per provare la gioia debba per
forza accadere un evento eccezionale e che spesso si corra il rischio di essere
semplicemente delusi. La straordinarietà di un evento gradito produce
buonumore, reazione energica, ma la gioia è un paese interiore che si illumina
quando ascoltiamo noi stessi, quando ci prendiamo cura dei nostri bisogni,
quando viviamo il presente e le relazioni in modo autentico.
Nell’ambito
delle relazioni interpersonali, l’amore rappresenta il soffio vitale che sottrae
spazio all’angoscia del non senso, alla percezione di un vano fluire del tempo.
Evitando fumose fantasie idealizzate, è possibile affermare che il desiderio
d’amore trasforma la vita e la permea: l’anima riconosce nel rapporto con
l’altro, che ha da sempre anelato, il significato profondo dell’esistenza cui
consegnare l’interezza di sé. L’amore rinuncia alla pretesa per farsi dono,
ricompone le ferite perché non esige, ma accoglie, genera e perdona; è
costituito di un’intelligenza del cuore grazie alla quale l’uomo ritrova la
propria essenza e la propria unità.
Questo
legame consente di toccare emozioni intense: la gioia, in particolare, nell’età
adulta rinnova l’esperienza positiva dell’attaccamento che da bambini è stato
provato verso la figura accudente e, nelle prime fasi del rapporto, suscita
quell’entusiasmo che favorisce l’avvicinamento. La gioia è invece matura e feconda
quando l’incontro diventa scelta; si basa sulla capacità della coppia nel
quotidiano di “rilanciare”, di guardare ad un progetto comune, di sostenere
sempre il desiderio dell’altro con cui crescere e cambiare in modo creativo. Nella
relazione, affinché avvenga questo, servono la reciprocità e la costruzione di
un “noi” che rappresenta una identità nuova, in cui quelle individuali, pienamente
consapevoli di sé, si sono unite in una forma di comunione, priva di rapporti
di potere. Un legame di questo tipo produce vitalità, libera energia, incrementa
la capacità di agire, promuove una profonda conoscenza reciproca. Senza mai
sottrarsi alla fatica o all’impegno, l’apertura e la flessibilità, aspetti connessi
alla gioia, sono risorse che permettono di reagire ai momenti di difficoltà e
di fragilità che la vita lascia emergere. La felicità si realizza nella
capacità di rinnovare e di sperimentare, consente di apprendere come sostenere
l’altro affrontando le situazioni.
Quando
una coppia giunge in consulenza, vive un momento di crisi le cui cause possono
essere molteplici; si predilige la presenza di due consulenti, un uomo e una
donna, per effettuare in modo più efficace il percorso. È necessario che
entrambi abbiano scelto di intraprendere il cammino perché non si può giungere alla
terra del “noi” se non per desiderio. Si
tratta di un lungo viaggio in cui i consulenti seguono e supportano i passi
della coppia, rispecchiandone il vissuto emotivo, portando a un livello di
consapevolezza le dinamiche in atto, educando all’ascolto ed alla comprensione;
con pazienza si torna a vedere l’altro, a comunicare in modo adeguato. La gioia
è un’emozione da riconquistare; il sorriso di solito rivela che è stato toccato
un ricordo di felicità o che la coppia ha iniziato a scorgere l’orizzonte dimenticato.
Collegata al piacere provato per il
raggiungimento di un obiettivo o per un bisogno soddisfatto, possiamo definire la gioia come il contatto riuscito con l’oggetto
desiderato. Insieme a rabbia, attesa e accettazione, la gioia indica
l’andare verso qualcuno, l’avvicinamento. Il dinamismo è una sua parte
inscindibile: sono
significative le frasi che la esprimono: “Non stare nella pelle per la gioia”; “Saltare
di gioia”; “Non si tiene dalla gioia”. In effetti chi esulta o grida di gioia entra in scena rumorosamente e
visibilmente. Molti di noi hanno impressa, a tal proposito, l’immagine di Gianmarco
Tamberi che, alle olimpiadi di Tokyo questa estate, saputo del successo
(medaglia d’oro) nella disciplina di salto in alto, accompagna con grida
vigorose la sua corsa irrefrenabile in cerca del compagno di squadra con il
quale condividere la vittoria. Molto importanti anche le sue dichiarazioni: ”Ho sognato questo giorno per tanto tempo. Sono
passato attraverso qualsiasi tipo di difficoltà pur di tornare, pur di farcela
pur di riuscirci. E’ un sogno che ho dentro da tanti anni e lo abbiamo realizzato… Io e le persone che
mi sono state accanto: il mio team sanitario, gli amici, la mia fidanzata
Chiara, il papà. Ragazzi, grazie! Ce l’abbiamo fatta, abbiamo vinto le
olimpiadi.” Parole fluite con energia e senza troppi ragionamenti da una
persona strafelice, che mostrano un altro aspetto, chiamato anche il “magico
potere”, della gioia: “la capacità di passare
dalla dimensione dell’io a quella del noi. Di vivere in relazione con gli altri
contando sui legami affettivi, guardando in faccia il presente senza le
costruzioni di desideri difficili o impossibili che spostano sempre la gioia al
futuro, e senza i rimpianti che respingono nel passato”. [Vittorino Andreoli,
La gioia di vivere]. Le emozioni infatti, soprattutto la gioia, quando sono
condivise con le persone importanti rinforzano la relazione. Nella consulenza
familiare questo è l’aspetto più evidente: aldilà della risoluzione della
problematica portata dal singolo o dalla coppia, la spinta al movimento
(interiore e relazionale) per cercare quello che fa star bene, che protegge,
che permette di vivere ogni situazione attraversandola adeguatamente, fa
rinascere nella persona la fiducia persa nella momentanea difficoltà e gli
permette di scoprire il piacere di riprendere in mano la conduzione della
propria vita. Allo stesso modo il consulente prova soddisfazione e per essere
stato d’aiuto e per essere riuscito nella sua professione.
Monica
Carnieri Consulente familiare presso il consultorio La famiglia di Palazzo di
Assisi
La gioia del perdono
L’evoluzione ci dice che
l’essere umano non nasce solitario, aggressivo e autoreferenziale ma che
piuttosto è fatto per essere in relazione e che il senso di vicinanza emotiva
con gli altri, la connessione e la collaborazione sono fattori che da sempre
permettono la sopravvivenza e procurano gioia. La riflessione sul
perdono è di quelle che tutti facciamo nella vita poiché ci capita di essere
feriti e non risarciti. Perdonare è un’esperienza profonda e una strada lunga e
difficile da percorrere. Ha a che fare con una guarigione, una
riparazione, parte da una relazione ferita e sanguinante e la fa (ri)nascere. Non è
quasi mai un singolo atto ma un processo che richiede tempo, tolleranza,
pazienza. Ed è una scelta, qualcosa che possiamo decidere di iniziare nel
percorso della nostra vita. Niente e nessuno può costringerci a perdonare, né
noi stessi, né gli altri, né i nostri valori morali e religiosi, perché
perdonare senza condizioni significa amare e non è una cosa meccanica che
accade in pochi minuti. Chi concede il perdono attraversa una trasformazione
interiore che modifica il modo di percepire il mondo, le persone e le relazioni
e permette la comprensione e la compassione verso l’umanità altrui ricordando la
comune fragilità: mendicanti di amore, di bene, di sicurezza, a volte, ci
feriamo a vicenda, perché in quel momento ci sembra l’unico modo per avere ciò
di cui abbiamo bisogno. La consulenza familiare, può essere uno dei luoghi
privilegiati dove la persona o la coppia è aiutata ad ascoltarsi, ad auto
ascoltarsi, a sperimentare l’importanza di fare i conti con se stessa per imparare
che ogni emozione è significativa e avverte che quello che sta succedendo può
condurre verso un cambiamento. Cambiare, poi, non è mai un passaggio facile e
veloce, per riuscire ci vuole coraggio e assunzione di responsabilità, e quel
tanto di insofferenza, insoddisfazione, rabbia, da permettere di chiedere aiuto
poichè i vissuti emotivi sperimentati nell’isolamento portano alla solitudine e
appaiono più violenti e insuperabili. Portare sulle spalle il peso dei sensi di colpa,
vergogna, rivalsa o ancor peggio vendetta, incurva la spina dorsale e non solo
quella fisica, toglie freschezza, vigore agli anni, e gioia alla
vita. Il consulente familiare che a motivo della sua formazione sperimenta su
di sé la forza rigenerativa delle relazioni riparate, osa sempre scommettere
sulla possibilità del cliente di sentirsi ancora capace di meritare amore e
vicinanza.
Monica Carnieri Consulente familiare
presso il consultorio La famiglia di Palazzo di Assisi
La paura è una delle cinque emozioni innate, ed
è una straordinaria risorsa di sopravvivenza e di mantenimento della specie per
l’uomo e per gli animali. Si tratta di un meccanismo di difesa che entra in
azione ogni qualvolta esiste un pericolo per la vita: mediante due ‘radar’che
si chiamano amigdale, poste nella
profondità del nostro cervello che sono sempre attive e che monitorano e
gestiscono la nostra parte emotiva. In poche parole che cosa accade quando ci
troviamo di fronte ad un pericolo ? Si attiva inizialmente è il sistema della
sopravvivenza che prepara il nostro corpo alla fuga, all’attacco o al
congelamento. Ma questo può accadere anche nella quotidianità: pensiamo a ciò
che avviene quando un alunno che non ha studiato e vede arrivare la prof col
registro pronto ad interrogare: mentre guarda il registro lo studente sente un
tuffo al cuore, che poi comincia a battere all’impazzata,le gambe vorrebbero
correre via, ma è obbligato a rimanere seduto, quindi si immobilizza e si
congela ( fino allo svenimento o alla morte apparente in casi estremi).
Accanto a questa paura innata ne esiste
un’altra definita appresa che si attiva quando abbiamo consapevolezza di un
pericolo, quando cioè non si attiva solo il radar, responsabile della risposta
automatica ed istintiva, ma entra in gioco la parte cognitiva che, valutando il
tipo di pericolo, può mettere in atto una serie di risposte diverse. E questi
tipi di risposte dipendono dalle esperienze che abbiamo avuto e che abbiamo
interiorizzato, ossia dipende dal significato che attribuiamo allo stimolo
pauroso.
In consulenza ci troviamo spesso ad avere a che
fare con questa emozione: paura di perdere la relazione con l’altro, di
affrontare le problematiche che l’adolescenza di un figlio propone, paura di
non essere all’altezza di un lavoro, di un esame, paura di un cambiamento, di
una separazione, di un tradimento. Potendo lavorare solo nel qui ed ora
cerchiamo di educare il cliente a guardare questa paura , ad accoglierla, ascoltarla,
piuttosto che negarla o vergognarsene, cercando di creare un ambiente in cui
possa sperimentare una relazione sicura in cui possa guardarsi un po’. Iniziamo
con l’esplorare innanzitutto il fatto che scatena la paura, per circoscrivere
il nostro intervento: esiste infatti un importante linea di demarcazione tra la
paura e gli altri parenti stretti come l’ansia, il panico ed il terrore, (
disturbi che non sono di nostra pertinenza): la paura è una reazione
emotiva ad un pericolo reale,
presente davanti a noi con una durata limitata, l’ansia è una
reazione ad un pericolo percepito
previsto ed è un disturbo continuativo. Avendo focalizzato il fatto, si osserva
che cosa accade nel corpo, quali pensieri emergono in merito a ciò, si esplora
se la paura è l’unica emozione presente o ce ne sono altre, per poi arrivare ad
esprimere il bisogno sotteso, o il desiderio, valutando la possibilità o meno
di raggiungerlo e con quali azioni concrete e fattibili.
Angela
Passetti Consulente Familiare Consultorio La Famiglia di Palazzo di Assisi
MAMMA AIUTO HO PAURA!
Ed eccoci a provare a parlare della paura dei
bambini. Abbiamo detto che la paura è l’emozione madre, quindi non è strano
pensare che il bambino appena nato quando non sente il caldo abbraccio della mamma
protesta e impara presto che certi suoi richiami attirano l’attenzione della
figura a cui tiene di più: è la prima paura che ognuno di noi ha provato,
ovvero la paura di essere abbandonati.
Man mano che il piccolo cresce e si abitua ai visi noti della figure che lo
accudiscono, ogni viso nuovo incute timore e allora cerca lo sguardo
rassicurante della mamma o il suo caldo abbraccio come a dire “ mi posso fidare
di questo estraneo?”. Quando poi il bambino inizia a comprendere che non è più
in simbiosi con la mamma, compare la
paura di non essere amato. Voglio citare, a questo riguardo, le parole
tratte dal testo P come paura (R. De Leonibus): se non mi vogliono abbastanza bene come farò a convincerli?… dovrò
fare in modo di agire sui loro sentimenti … fino a quando riuscirò a farmi
amare sono salvo … dipendo da loro, se mi amano non avrò più paura. Ecco il
primo potentissimo pilastro del potere dell’amore, e il primo terribile
rischio, quello di non essere voluti abbastanza bene.
E poi arriva la paura del buio: la notte è un momento della solitudine,
della separazione dalla mamma che il bambino sopporta solo se il legame di
attaccamento è sufficientemente buono, ossia se la mamma almeno il 30% delle
volte è riuscita a sintonizzarsi con i bisogni del suo bambino. Cari genitori
sapete cos’è la sintonizzazione emotiva? E’ la capacità di ascoltare,
accettare e comprendere l’emozione del vostro bambino per creare un ambiente e
un clima adatti a favorire un rapporto fondato sulla fiducia reciproca.
Quindi verso i 4-5 anni fa capolino la paura dei mostri invincibili e
potenti, dei lupi, dinosauri enormi e brutti e allora cari genitori iniziamo a
raccontare le fiabe. La fiaba, con un linguaggio simbolico, aiuta il bambino a
fare ordine nella sua casa interiore in costruzione in quanto parlano di ciò
che il bambino vive, e offrono soluzioni permanenti o temporanee alle sue
difficoltà. La fiaba semplifica le situazioni, ha sempre un lieto fine e dà
modo al bambino di trarre un significato diverso dalla stessa fiaba a seconda
dei suoi interessi e bisogni del momento. Può infatti tornare sulla stessa
storia quando è pronto a elaborare vecchi significati o a sostituirli con
significati nuovi.
In consulenza quando un genitore porta le paure
del bambino cerchiamo di far comprendere che il compito di ogni genitore è
fornire al proprio figlio quella base sicura da cui partire per esplorare il
mondo, affinchè sappia che c’è qualcuno che lo sorveglia, lo aiuta, lo ammira,
gioisce con lui delle sue conquiste e progressi. E allo stesso tempo quando ha
bisogno di tornare al porto sicuro per essere consolato, per regolare le sue
emozioni, per essere accolto qualsiasi cosa accada. E se come genitori non ce
la facciamo a reggere queste paure, si cercherà una strada un po’ diversa per
affrontarle.
Angela
Passetti Consulente Familiare Consultorio La Famiglia di Palazzo di Assisi
La paura
e gli adolescenti
L’adolescenza
è una fase dell’età evolutiva caratterizzata da un ricco potenziale che
si esprime nell’energia del cambiamento e nella creatività di immaginare un
futuro di promesse; comporta la
necessità di affrontare dei compiti di sviluppo, che si traducono in tappe
progressive, come fossero spinte per una seconda nascita, grazie alla quale si
realizza una separazione nei confronti delle figure genitoriali. Gli individui,
portando a compimento una complessiva e consapevole ristrutturazione cognitiva
ed affettiva, apprendono infatti le competenze necessarie ad assumere le
responsabilità proprie di un adulto.
Definita
spesso come un’età ingrata, increspata da crisi continue, l’adolescenza
risulta, invece, una stagione dell’esistenza fragile, ma meravigliosa, che deve
essere protetta: è il tempo della sperimentazione, funzionale
all’acquisizione dell’autonomia e del senso di autoefficacia. L’adolescente diviene il centro di un ampio movimento, in cui convivono forze
centripete, connesse a un bisogno di continuità con il proprio passato, e forze
centrifughe, legate all’abbandono dell’infanzia e a una ricerca di autonomia.
Talvolta
alcuni ragazzi hanno come l’impressione di “morire” nell’attuare una
separazione da quello che era il loro mondo conosciuto e nell’incertezza di non
vedere bene verso quale porto stiano procedendo. Tale vissuto è paragonabile a
un lutto ed è caratterizzato da momenti di intensa paura: paura di perdersi, di
non essere amati, paura di non farcela. L’adolescente rischia di sviluppare una
depressione mascherata che si rivela
sotto forma di comportamenti antisociali, sentimenti di vuoto, noia,
indifferenza; prevalgono sensazioni estreme e le emozioni vengono agite senza
essere filtrate: la paura blocca, spinge alla fuga o si manifesta con
atteggiamenti passivo-aggressivi, facile irritabilità e malumore.
La famiglia
deve rimanere capace di trasmettere sicurezza attraverso il contenimento. I
genitori sono chiamati a ripensarsi, confrontandosi con il ricordo della
propria adolescenza, con la necessità del cambiamento e con la ricerca di nuovi
equilibri. Un sostegno significativo
può divenire la consulenza perché l’adolescente si sperimenta in una relazione
protetta con un adulto “potente” in grado di accogliere. Molto spesso, infatti,
l’insoddisfazione, il disagio e il disadattamento sono legati a dei rapporti
falsati o degenerati a livello di interazioni comunicative, in particolar modo
con le figure di riferimento; proteggere dalla sofferenza, nascondendo la
verità o facendo evitare esperienze difficili è l’inganno a cui alcuni adulti
arrivano per difendere più loro stessi che i figli. Il consulente, aiutando a
dipanare il filo dei vissuti, permette al ragazzo di esplorare il labirinto del
proprio sentire, di riconoscere e validare tutte le emozioni, affinché la
consapevolezza consenta di affrontare paure e cambiamenti, non avendo la
pretesa di conoscere la sapienza del cammino, ma avendo imparato il coraggio di
provare la strada.
Irene Bratti Consulente Familiare
Consultorio La Famiglia di Palazzo di Assisi
La paura a scuola
Durante l’esperienza scolastica
molti allievi manifestano disagi momentanei, ma con il tempo ed un corretto
supporto degli adulti imparano a confrontarsi con le situazioni e a riconoscere
le proprie risorse; il superamento di tali problematiche si trasforma in un
passaggio significativo che accresce la fiducia in se stessi e l’autostima.
Differenti sono le motivazioni che
scatenano la paura, ma nel complesso sono afferenti a due aree principali: la
separazione e l’adattamento a una società più ampia e strutturata; per quanto
concerne il primo ambito, gli eventi più frequenti riguardano l’ingresso nel
mondo della scuola, il passaggio da un ordine all’altro di istruzione,
l’avvicendamento di insegnanti, problemi familiari. Relativamente all’ansia
sociale, la paura è collegata al rendimento e ai rapporti interpersonali: i
ragazzi incontrano difficoltà nello svolgimento delle attività, nelle
interazioni con i compagni o con i docenti; vengono sopraffatti dai risultati
negativi e dalla mancanza di riconoscimento.
Alcuni aspetti, legati al contesto
familiare, possono creare una predisposizione a vivere con preoccupazione
l’ambiente scolastico: l’apprensione genitoriale, l’iperprotettività, la
tendenza a trattare il ragazzo come se fosse sempre “piccolo”, l’eccessiva
enfasi sulle capacità di riuscita e sul successo come prestazione performante.
Tali elementi attivano delle risposte ansiose da parte dell’alunno che prova
paura di fronte ai normali compiti di sviluppo e al risultato delle sue azioni;
l’allievo si identifica con l’esito delle prove e crolla di fronte all’ostacolo
o alla frustrazione.
La presenza di un buon clima
relazionale a scuola aiuta gli studenti a superare tali disagi e consente loro
di esprimere le proprie potenzialità; le dinamiche interpersonali molto
competitive o svalutative creano invece demotivazione e timore. In tale
contesto l’insegnante è la figura che “contiene” e promuove un percorso nel
quale, rendendo aperti i ragazzi alla cultura, favorisce la soggettivazione
del sapere; grazie al proprio stile educativo, suscita emozioni e reazioni.
Lontano dall’attuale illusione distorta del docente psicologo, il professore
deve però essere consapevole del ruolo che detiene nello sviluppo affettivo,
emotivo e intellettivo degli alunni; per questo è necessaria un’attenzione alla
relazione, all’ascolto attento, alla comunicazione adeguata e congruente.
La consulenza può risultare un
aiuto valido perché un soggetto esterno, percepito come competente e
rassicurante, permette al ragazzo di esprimere e validare angosce e paure; attraverso la comunicazione empatica, il
rispecchiamento e le attivazioni agevola l’autoconsapevolezza nella direzione
di una crescita personale.
Risorsa efficace per la scuola e per le famiglie, la consulenza offre un
sostegno nelle situazioni problematiche, si prende cura della sfera emotiva dei
ragazzi, supportando i genitori stessi, permette la conoscenza di sé, potenzia
la capacità di relazionarsi e di automotivarsi.
Irene Bratti
Consulente Familiare Consultorio La Famiglia di Palazzo di Assisi
Per la tristezza vale la
regola generale per cui i genitori insegnano ai bambini a parlare, a
riconoscere la realtà e ad agire nel mondo e i figli imparano, soprattutto,
imitando i genitori. Un bambino triste sa di star male, ha bisogno che il
genitore gli dica cosa è quello che gli
sta succedendo, ha bisogno che il genitore
lo veda e dia un nome a quel senso di vuoto che egli sente. Ma il nome
non basta, ha bisogno di essere consolato, ha bisogno di un sostegno sicuro che
gli faccia sentire che non è solo e che ha valore e che quello che gli succede
si organizza, in un qualche modo, con pazienza. L’adulto che conta è
tranquillo, è un rifugio sicuro e la tristezza si può sopportare. Se invece la
tristezza viene ignorata o sminuita o negata, il bambino pensa che quello che prova sia sbagliato, o,
peggio, di non star provando quello che prova. Non è una buona regola per
affrontare la vita. Un’emozione accettata e organizzata diventa parte della
vita quotidiana e un buon modo per capire cosa succede dentro e fuori di noi.
Si vede bene con i figli adolescenti. Le emozioni, come tutto resto in questo
periodo della vita, sono sempre forti, eccessive, la confusione regna sovrana.
Dare un nome alla tristezza significa far sapere all’adolescente che si
riconosce la sua tristezza e la si nomina senza paura. Possono seguire le
spiegazioni o le confidenze spesso contorte o reticenti del ragazzo, e quello che conta è che lui possa dire cosa succede
a qualcuno che lo ascolta ed è sicuro, a qualcuno che non ha tutta la sua
paura. Vanno anche bene le sue non
spiegazioni, quel pesante silenzio che gli adolescenti usano bene, perché quello che vale è resistere, stare accanto a
lui, non scappare e neanche negare. Si può essere tristi senza sapere perché
anche da adulti. Non si tratta di trovare soluzioni subito, si tratta di non
scappare, poi si cercherà la soluzione. In consultorio a volte vengono genitori
preoccupati di mostrare la loro tristezza ai figli e in questa casi vale la funzione
pedagogica della consulenza, per cui si può insegnare anche al genitore che non
è un male mostrare le emozioni. E’ chiaro che per poter stare dentro alla
tristezza dei figli bisogna aver imparato a fare i conti con la propria. La tristezza dei figli è un buon allenamento
per ascoltare se stessi, concedendosi di non essere onnipotenti, di poter
essere limitati, ricordando che questa emozione ci vuole dire qualcosa e
soprattutto che non è una nemica. Non più di quanto lo siano queste sempre più
corte giornate di autunno con profumi, colori, luce diversi da quelli
dell’estate ma che non sono non sbagliati. Sono solo un’altra parte dell’anno.
Anche se non pare divertente
parliamo di giorni tristi e della tristezza di tutti i giorni. Facciamo una
distinzione: ci sono giorni tristi senza un perché chiaro: sappiamo che
arrivano e che passano con una tristezza, senza ragione apparente, che riduce
un po’ il colore di tutto quello che ci accade. Non possiamo farci nulla. Ci
sono poi giorni in cui la tristezza ha una causa più definita: lo abbiamo visto
in un altro articolo. Capita spesso, eppure non se ne parla volentieri, anche tra
amici o in famiglia, come se fosse contagiosa o
segno di debolezza o un tema troppo noioso.Gli adolescenti non
ne parlano perché è da sfigati oppure la ostentano come fosse un’arma che si
usa ma di cui non si parla. Molti
adulti, invece, non sono tristi: sono stanchi, sono sotto pressione, sono
preoccupati oppure realisti, cioè senza illusioni.
Non basta giocare con le parole, l’emozione
resta anche se non ce la riconosciamo. Guardandola con calma vediamo che spesso
la tristezza si lega all’idea di
perdita, alla percezione di aver perso qualcosa di cui avevamo bisogno. A volte
vengono in consultorio persone che stanno male ma non sanno subito dire che
sono tristi. Quando lo scoprono inizia, da parte loro, la ricerca, inizialmente timida, poi sempre più
determinata del nome di quello di cui,
davvero, hanno bisogno. Ma anche quando i bisogni sono chiari può seguire
l’idea pericolosa che non noi ma qualcun’altro se ne debba prendere cura, debba
soddisfarli. Questa è una pretesa. La richiesta di qualcosa che ci serve è
buona, legittima ma prevede di poter essere disattesa. La pretesa invece sta
nell’assumere che la richiesta debba soddisfatta da qualcuno che deve prendersi
cura del nostro bisogno, non è previsto il rifiuto. Peggio ancora è quando si pensa
che qualcuno debba capire di cosa abbiamo bisogno senza dirglielo. Nei primi
mesi di vita richiesta e pretesa sono identiche visto che un neonato è
impotente, ma poi si le cose cambiano e inizia la fatica ma anche la capacità
di prenderci cura dei nostri bisogni. Visto che nessun’ altro può, farlo al
nostro posto abbiamo imparato a cercare e chiedere in più modi. E tutto questo
come si collega alla tristezza? Si collega perché, come una compagna un po’
troppo petulante, ci invita ad ascoltarci. Ci ricorda che siamo limitati, ci
ripete che abbiamo bisogno di qualcosa. E allora, per placarla un po’, iniziamo
a darci da fare per soddisfare, come possiamo, quel bisogno. Insomma la scomoda
compagna ci esorta a volerci bene.
Chiara Leone, Consulente famigliare presso il Consultorio La Famiglia di Palazzo di Assisi
QUANDO LA TRISTEZZA PASSA IN CONSULTORIO
Quando
la tristezza passa dal consultorio ha molte facce. Ha la faccia degli
adolescenti tristi per gli insuccessi a scuola, per l’isolamento dagli amici,
perché i genitori non li capiscono, per la confusione che regna ovunque nella
loro vita. Oppure la tristezza è nell’espressione stanca delle persone che si
sentono abbandonate, dal marito, dalla moglie, dai figli. Spesso non è un
abbandono fisico, semplicemente non ci sono più il marito e i figli che si
conoscevano. Oppure ci sono le persone tristi perché qualcuno se ne è davvero
andato, non c’è più e quel vuoto non si sistema. Poi ci sono tutti quelli
tristi perché non sono all’altezza: di essere buoni genitori o buoni lavoratori
o buoni amici e così via.
E
il consulente cosa fa? Ascolta. Questo significa che ha e mostra interesse
verso quello che gli si dice, non si annoia o si spaventa di fronte a quello
che sente, sta attento perché è certo che la persona che ha davanti ha valore.
Ascoltare è diverso dall’interpretare e dal giudicare, non comporta dare
consigli, non ha nulla a che vedere con il guidare o peggio ancora con il
curare. Il consulente ascolta e sta con la persona che viene. Stare, in questo
caso, significa accettare quello che porta, resistere al dolore condividerlo
senza immedesimarsi. Forse qualcuno di noi ha incontrato persone del genere, in
grado di essere così senza aver nessun titolo o essersi formati apposta, ma
questa è una grande fortuna, non è la norma. E per capire quanto sia raro basta pensare quando è stata l’ultima volta che
qualcuno davvero ci ha ascoltato senza interromperci, senza guardare il
cellulare, senza replicare a sproposito o peggio replicare prima ancora che
avessimo finito. Mai successo nelle ultime 5 ore?
Chi
viene triste in consulenza rimette un po’ di ordine semplicemente sentendosi
accolto da una presenza sincera, da uno che gli
sta di fronte e lo accetta così come è, che lo considera importante e gli
ricorda che ha valore anche se adesso non pare vero. Il consulente resiste
insieme a chi è triste. Così si impara a dare un nome a un’emozione o si scopre
che cambiando punto di vista tutta la realtà cambia. Il consulente e la
tristezza, che ha portato in consultorio, sono un aiuto. In fondo la tristezza
è come una compagna di scuola, una di quelle non tanto simpatiche, scontrose ma
che alla fine passano un pezzo del compito e aiutano a trovare una soluzione.
Certo non pare il caso di invitarla a cena ma si può smettere di evitarla con stizza,
un po’ di attenzione e un saluto non glielo si può più negare.
Chiara Leone, Consulente
famigliare presso il Consultorio La Famiglia di Palazzo di Assisi
Parlando di emozioni, quella che spesso cerchiamo di nascondere o
reprimere è la tristezza che è una delle emozioni basilari ed è una risposta
naturale a situazioni che coinvolgono dolore psicologico, emotivo e/o fisico.
Moltissimi sono i sinonimi della parola tristezza
per significare le diverse intensità del nostro sentire: malinconia,
infelicità, sconforto, scontentezza, disperazione, amarezza, dispiacere…
Altrettanti sono i modi di dire; si va dal “ho un terribile magone” al “mi
sento un gran fardello, mi sento abbandonato, ho toccato il fondo, sono giù di
corda, mi sento a pezzi …”.
Partire dalla parola è importante poiché
permette alla “cosa” percetirci pita di esistere, di
essere conosciuta e riconosciuta e quindi di avere una valenza. Questo è
importante per tutte le emozioni, ma a maggior ragione per la tristezza che è
un’emozione che spesso cerchiamo di non ascoltare, di nascondere tra un impegno
e l’altro, riempiendoci la vita di fare e dover fare.
Cerchiamo di mettere a fuoco la validità di
questa emozione, probabilmente la più difficile in termini di utilità.
Nell’evoluzione della nostra specie, la
tristezza ha rivestito un ruolo fondamentale; può essere considerata un segnale
che il nostro sistema di attaccamento si è attivato e consente di segnalare
all’altro il bisogno che abbiamo della sua presenza in momenti di difficoltà.
Un’altra funzione importante svolta dalla
tristezza è quella di consen- di volgere lo sguardo
dentro di noi per riflettere e analizzare in modo profondo gli eventi della
nostra vita con la possibilità di dare un senso al nostro dolore. Se la
tristezza è causata da frustrazioni o insuccessi, diventa essa stessa motivo di
ricerca di nuove soluzioni e azioni. La tristezza, come ogni altra emozione, è
caratterizzata dall’essere uno stato transitorio, ma la durata può essere
influenzata da diversi fattori come la valenza soggettiva dell’evento che l’ha
provocata e i meccanismi di rimuginio e ruminazione. Tali meccanismi possono
accrescere i pensieri relativi all’evento che ci ha fatto provare tristezza,
facendoci sentire ancora più tristi, in un circolo vizioso che, oltre ad
influenzarne la durata ne influenza anche l’intensità.
Quando la tristezza perdura e l’intensità
è molto alta, potremmo trovarci bloccati, non vedere più le
nostre risorse, sentirci persi, incapaci di fare scelte e di
risollevarci. Questo potrebbe essere il paesaggio emotivo del cliente che si
rivolge al consultorio.
Il consulente familiare accoglie, ascolta e
accompagna la persona che vive una situazione di disagio e sofferenza in un
percorso (9-10 incontri), durante il quale il cliente si può dare il permesso
di riconoscere la tristezza, di accettarla, di accoglierla ed esprimerla. In
questo cammino il consulente non precede e non segue la persona, ma le sta affianco
per illuminare il suo cammino affinché possa ritrovare le sue risorse e fare
scelte autonome.
Antonella MonacelliConsulente
Familiare Consultorio La Famiglia di Palazzo di Assisi
Quando ci
viene in aiuto chiederci “Che tempo sono?”
Quando
parliamo di tristezza, l’etimologia delle parole ci viene in aiuto: essere
tristi deriva da termini latini che rimandano al significato di “ruvido”,
“torbido”, “scuro”.La tristezza sembra rimandare ad un paesaggio emotivo
piuttosto sgradevole, “scomodo” e, al tempo stesso, oscuro e confuso. Come il
paesaggio è fatto di primo piano, sfondo, colori con gradazioni e tonalità
diverse, anche quello interiore è fatto di intensità e sfumature diverse. Se
domandiamo a più persone, qual è per loro il colore della tristezza, per lo più
ci sentiamo rispondere che va dal grigio chiaro, grigio più scuro, grigio
intenso, fino ad arrivare al viola e nero. Spesso a scuola quando vedo gli
alunni agitati, arrabbiati o visibilmente tristi, chiedo loro di prendere un
foglio e rappresentare graficamente “ Che tempo sono”. Vengono fuori,
metaforicamente parlando, diversi tempi metereologici. C’è il bambino cielo
sereno, quello nuvoloso, il bimbo nebbia, l’alunno temporale… questo per dire
che per definire il nostro sentire usiamo una pluralità di nomi ed espresioni.
Possiamo
dire di sentirci “dispiaciuti” se viviamo qualcosa che mette a rischio la
relazione con qualcuno, come per esempio l’altro ha detto o fatto qualcosa che
ci ha ferito, oppure siamo noi che abbiamo fatto star male l’altro.
Possiamo
usare la parola “delusi” che è ancora una sfumatura più intensa, quando si
aveva un’aspettativa su altri o su se stessi che non si è realizzata.
A livello di
gruppo possiamo sentirci “rifiutati” quando non ci sentiamo considerati oppure
possiamo sentirci esclusi se per esempio gli amici non ci invitano al cinema o
non parlano con noi.
Vi è poi la
“nostalgia” collegata al concetto di mancanza di qualcosa o qualcuno. Quando
invece la persona sta male perché le manca qual- cosa, ma non sa individuare
cosa, è probabile che si tratti di “malinconia”.
Se la
tristezza è collegata al concetto di incapacità proviamo la sensazione essere
incompetenti a fare qualcosa. Questa emozione nasconde in sé un giudice
interiore molto attivo che rischia di minare la nostra autostima.
Vi è poi la
tristezza collegata al mancato raggiungimento di un obiettivo e quindi ci si
può sentire “sfiduciati”: si crede di non potercela fare.
Si può dire
che ci si sente “insoddisfatti” o addirittura “delusi” quando non siamo
riusciti a terminare un compito in tempo, o la qualità del risultato non ci
soddisfa, oppure ancora perché il lavoro è stato criticato.
Quando ci
sentiamo in tristi, proviamo a chiederci non solo “Che tempo sono”, come faccio
con i miei alunni, ma anche che tristezza sento. La persona in difficoltà nel
comprendere pensieri ed emozioni può rivolgersi al consultorio, dove,
attraverso la relazione d’aiuto,può dar voce ai silenzi più tristi, tornare ad
assumersi la responsabilità della propria vita e ad avere fiducia nelle proprie
risorse interiori.
Antonella MonacelliConsulente Familiare Consultorio La Famiglia di
Palazzo di Assisi
In un periodo in cui siamo travolti dalle emozioni, abbiamo
voluto
esplorarle un po’ per diffonderne l’importanza. Conoscerle per poterle
regolarle: capire la funzione delle emozioni ci serve a decidere il nostro
comportamento.
Il nostro consultorio ha iniziato una buona collaborazione
con il settimanale La Voce, che ha pubblicato e continua a pubblicare un
intervento settimanale che mette a tema proprio le emozioni.
In sintesi stiamo perciò andando a spasso con tristezza,
gioia, paura etc., sia dal punto di vista teorico che da quello pratico, nel
contesto della vita quotidiana
Chi non ha mai
provato la sensazione delle farfalle sullo stomaco o sentito battere forte il
cuore per amore? Tremare le gambe all’interrogazione? Arrossire di fronte a
qualcuno che ci fa provare vergogna? Sentir prudere le mani dalla rabbia!
L’elenco
potrebbe durare ancora e così, le sfumature delle nostre percezioni legate alle
emozioni. Inevitabile quindi, non cogliere lo stretto legame che le unisce al
corpo. A dimostrarlo oggi ci sono
numerosi studi. Addirittura, è stata creata, da ricercatori finlandesi, una
mappa corporea delle emozioni grazie ad un campione di 700 volontari provenienti
dalla Finlandia, dalla Svezia e da Taiwan, i quali hanno individuato le parti
del corpo interessate ai diversi stati emotivi.
I risultati sono stati sorprendentemente coerenti anche tra le diverse culture. Le emozioni sono universali, non sono apprese, ma innate.
Ciò ci dimostra come non sia affatto possibile pensare che corpo ed
emozioni siano due realtà separate. Lo scrittore Ekhart Tolle scrive che
l’emozione sorge laddove mente e corpo si incontrano. È perciò chiaro che se
vogliamo parlare di che cosa ci accade fisicamente non possiamo far finta che
non c’entrino le emozioni e viceversa. Il corpo somatizza quelle emozioni forti
che il più delle volte non trovano il giusto riconoscimento e accoglienza in
noi.
Anche la
medicina orientale cinese, ad esempio, considera il mal-essere la distanza
eccessiva tra la dimensione emotiva spirituale e quella razionale ed insegna a
noi oggi, dopo 3000 anni, che è l’unico modo per potersi riappropriare di se
stessi, della propria vita, della propria sfera emozionale, del proprio
benessere. Ricompattare queste dimensioni vuol dire dedicarsi del tempo per
uscire fuori dal caos di tutti i giorni.
È necessario quindi, prendersi cura del proprio ben-essere
psico-fisico e, attraverso la consulenza familiare, possiamo cominciarlo
a fare imparando ad osservare, ascoltare il nostro corpo, dare un nome alle
sensazioni, riconoscere i pensieri e le relative emozioni che generano.
Riconoscere le emozioni, accogliere anche quelle che apparentemente possono
sembrare negative ci aiuta a stare in contatto con il nostro Io, ci aiuta a
divenire consapevoli, ma soprattutto a prenderci cura di noi stessi, a vivere
in pace con noi e con chi ci è vicino. L’ascolto, la conoscenza di se stessi ci
permette di affrontare le sfide del quotidiano con maggiore sicurezza, perché
diventiamo capaci di riconoscere prima di tutto i nostri limiti e fragilità che
non rappresentano degli ostacoli ma stimoli per migliorarci continuamente.
Le emozioni
accompagnano molti momenti della nostra giornata e spesso siamo costretti come
sostiene la filosofa contemporanea Martha Nussbaum a dover “misurarci con il
caotico materiale del dolore e dell’amore, della rabbia e della paura, e con il
ruolo che queste tumultuose esperienze giocano nel pensiero”. Ci troviamo spesso a sperimentare le numerose difficoltà nel gestire e
tollerare lo stress di una vita sempre più frenetica, piena di impegni,
difficoltà e problemi. La serenità, la pace con se stessi diventa quasi
un’utopia e pensare alla pace nelle relazioni diventa quasi un paradosso.
Può sembrare
impossibile trovare quello spazio che permetta di ri-centrarsi, di
ricontattarsi. In qualche modo si è sempre meno capaci di sviluppare un dialogo
interiore in grado di filtrare i diversi stimoli e pensare alle diverse azioni
da compiere.
Numerose sono
le difficoltà relative al non capire gli altri, ma il più delle volte dipende
dal fatto che non riusciamo a capire noi stessi. Pertanto, il processo di autoconsapevolezza,
di conoscenza partendo dal riconoscimento e accettazione delle proprie emozioni
è fondamentale, perché non conoscere le emozioni vuol dire attribuirle agli
altri, vuol dire avere sempre dentro un nemico.
A questo proposito
può essere utile il riferimento ad una storia Zen dove si racconta come un
monaco non riuscisse a meditare a causa di una visione che lo disturbava, un
lupo inferocito. Chiese consiglio al suo maestro che gli consegnò un pennarello
per disegnare una croce sul petto del lupo, questo atto lo avrebbe fatto
scomparire. Il monaco un po’ titubante ma anche fiducioso del suo maestro si
rimise a meditare. Quando comparve il lupo riuscì a disegnargli con il
pennarello la croce sul petto. Corse tutto felice dal maestro per raccontargli
del suo atto e per chiedere spiegazioni su quanto accaduto. Il maestro gli fece
notare il suo petto e la croce disegnata, la stessa fatta al lupo. Il monaco
capì che le paure non erano altro che il frutto dei suoi pensieri.
Questa storia
sottolinea come sia importante riconoscere ciò che accade prima di tutto in
noi, attraverso il contatto con il nostro mondo interiore fatto di zone
d’ombra, di fragilità, ma anche di forza e di coraggio, di risorse.
Nella
Consulenza Familiare, quindi, possiamo conoscere e migliorare quelle abilità
comportamentali necessarie per una sana comunicazione e appartenenza al contesto
sociale, imparare a reagire in modo sano alle critiche per vivere in armonia
con gli altri.
Sabrina
Marini Consulente familiare, Direttrice del Consultorio La famiglia di Palazzo
di Assisi, referente AICCeF Umbria
…
E QUANDO HO UNA CRISI A CHE SERVONO LE EMOZIONI?
SOS
CONSULENZA FAMILIARE E CONIUGALE
Dopo aver definito le emozioni primarie innate,
le loro funzioni, come si sviluppano e si regolano o meno, ora ci chiediamo:
perché sono così importanti nella vita di ognuno? Che possiamo fare quando
siamo in difficoltà con esse? Ribadisco il concetto che senza emozioni non
possiamo vivere perchè sono alla base dei nostri desideri, delle nostre
intenzioni e delle nostre scelte comportamentali.
Può accadere che in un certo momento della
vita, viviamo un momento di crisi: una situazione o una relazione che ci mette
in difficoltà, il bivio di una scelta, un momento di solitudine ecc., ed è proprio
in queste occasione che sentiamo che da soli non ce la facciamo, abbiamo
bisogno di qualcuno che guardi la cosa da un’altra prospettiva, che ci faccia
da specchio, che illumini la nostra strada.
La consulenza coniugale e familiare,
rappresenta una relazione di aiuto rivolta a chiunque abbia bisogno di essere
accompagnato a riscoprire i propri punti di forza e a rivedere i punti di
debolezza come un’opportunità di crescita e cambiamento. La relazione di aiuto
con consulenti, formati nelle apposite scuole, si propone non tanto di risolvere il problema, quanto di
definirlo: dove è il problema o quale è.
Per esempio: X richiede una consulenza perché
si è bloccato negli studi. Partendo da questo fatto concreto, esploriamo i
disagi corporei percepiti (abbiamo visto la scorsa settimana che ogni emozione
ha un suo linguaggio corporeo): “sento una stretta allo stomaco”, “ho
tachicardia e sudorazione”, ”mi manca il respiro”,” le mie le gambe che non
possono stare ferme”. A queste sensazioni corporee si associano dei pensieri:
‘devi fare il tuo dovere’, ‘non ti vergogni a non riuscire a presentarti
all’esame? ‘ devi farcela da solo, e così via. Questa musica di sottofondo,
suscita un’emozione, un sentimento a cui va dato un nome perché è da questo che
si genererà un’intenzione, un desiderio, un bisogno, verso un’azione o una non
azione. Ecco che essere sostenuti in consulenza, nell’esplorazione della
definizione di ciò che viviamo e sentiamo nel qui ed ora ci aiuta a focalizzare
e a dare un nome al problema, a guardarlo da un’altra prospettiva che ci
aiuterà a cambiare, o rinforzare, o decidere il nostro comportamento.
In maniera un po’ riduttiva e succinta è questo
quello che facciamo in consulenza: un servizio gratuito di accompagnamento al
singolo, alla coppia, alla famiglia, perché “Se posso fornire un
certo tipo di relazione, l’altra persona scoprirà dentro di sé la capacità di
usare quella relazione per la crescita e si verificherà il cambiamento e lo
sviluppo personale”. (C. Rogers)
Angela
Passetti Consulente Familiare
Consultorio La Famiglia di Palazzo di Assisi
In un periodo in cui siamo travolti dalle emozioni, abbiamo
voluto
esplorarle un po’ per diffonderne l’importanza. Conoscerle per poterle
regolarle: capire la funzione delle emozioni ci serve a decidere il nostro
comportamento.
Il nostro consultorio ha iniziato una buona collaborazione con il settimanale La Voce che ha pubblicato, e continua a pubblicare, un intervento settimanale che mette a tema proprio le emozioni.
In sintesi stiamo perciò andando a spasso con tristezza,
gioia, paura etc., sia dal punto di vista teorico che da quello pratico, nel
contesto della vita quotidiana
La collaborazione coinvolge anche Umbria radio Inblu dove
gli autori degli articoli sono intervistati.
Il termine Emozione deriva da e-movere, ossia
muovere verso l’esterno: quindi l’emozione ci fa spingere verso qualcosa o
qualcuno fungendo da ponte di collegamento tra il mondo interno e quello
esterno.
Quando arriva uno stimolo dalmondo esterno noi reagiamo in base
all’emozione che stiamo sentendo in quel momento, anche se non sempre ce ne
rendiamo conto: se impariamo a dare un nome a quell’emozione, sapremo come ci
raccontiamo ciò che avviene e questo ci aiuta a dare significato alla nostra
storia e a decidere il comportamento da tenere.
Facciamo
un esempio: di fronte ad un evento, una cosa è affrontare le situazioni con una
emozione di fondo di gioia, una cosa è affrontare la stessa situazione se siamo
orientati verso il disgusto, o con paura o altro.
Quindi le emozioni in breve hanno tre funzioni
principali: 1) preparare il soggetto all’emergenza o ad affrontare le
situazioni impreviste mediante i cambiamenti fisiologici: se vedo un pericolo
scappo o mi congelo o attacco. 2) far percepire all’individuo che cosa ‘sente’ in
seguito ad un evento, permettendogli di regolarlo e decidere come reagire. 3)
far conoscere agli altri il proprio stato emotivo.
Nelle relazioni connettersi con le nostre e le
altrui emozioni permette di regolare di facilitare la comunicazione e la
relazione stessa: alla rabbia si risponde con l’ascolto e la riparazione, alla
paura con al rassicurazione, alla tristezza rispondiamo con la compassione e la
consolazione, al disgusto si risponde con l’accettazione. E alla gioia? È
l’unica che non cerca l’emozione complementare in quanto richiede la risonanza
dell’altro, ovvero la condivisione.
In
consulenza
il nostro approccio è proprio questo: un ascolto attivo che consenta alla
persona di contattare ciò che sente, pensa, vive nel qui ed ora e riscoprire le
proprie capacità nell’affrontarlo, cercando di dare un nome alle proprie
emozioni che prova o che non riesce a sentire, per poi orientare le proprie
scelte.
Angela
Passetti Consulente Familiare Consultorio La Famiglia di Palazzo di Assisi
Per ricordarci che la morte non ha vinto: BUONA PASQUA di RESURREZIONE
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