Dare voce alla tristezza
Parlando di emozioni, quella che spesso cerchiamo di nascondere o reprimere è la tristezza che è una delle emozioni basilari ed è una risposta naturale a situazioni che coinvolgono dolore psicologico, emotivo e/o fisico.
Moltissimi sono i sinonimi della parola tristezza per significare le diverse intensità del nostro sentire: malinconia, infelicità, sconforto, scontentezza, disperazione, amarezza, dispiacere… Altrettanti sono i modi di dire; si va dal “ho un terribile magone” al “mi sento un gran fardello, mi sento abbandonato, ho toccato il fondo, sono giù di corda, mi sento a pezzi …”.
Partire dalla parola è importante poiché permette alla “cosa” percetirci pita di esistere, di essere conosciuta e riconosciuta e quindi di avere una valenza. Questo è importante per tutte le emozioni, ma a maggior ragione per la tristezza che è un’emozione che spesso cerchiamo di non ascoltare, di nascondere tra un impegno e l’altro, riempiendoci la vita di fare e dover fare.
Cerchiamo di mettere a fuoco la validità di questa emozione, probabilmente la più difficile in termini di utilità.
Nell’evoluzione della nostra specie, la tristezza ha rivestito un ruolo fondamentale; può essere considerata un segnale che il nostro sistema di attaccamento si è attivato e consente di segnalare all’altro il bisogno che abbiamo della sua presenza in momenti di difficoltà.
Un’altra funzione importante svolta dalla tristezza è quella di consen- di volgere lo sguardo dentro di noi per riflettere e analizzare in modo profondo gli eventi della nostra vita con la possibilità di dare un senso al nostro dolore. Se la tristezza è causata da frustrazioni o insuccessi, diventa essa stessa motivo di ricerca di nuove soluzioni e azioni. La tristezza, come ogni altra emozione, è caratterizzata dall’essere uno stato transitorio, ma la durata può essere influenzata da diversi fattori come la valenza soggettiva dell’evento che l’ha provocata e i meccanismi di rimuginio e ruminazione. Tali meccanismi possono accrescere i pensieri relativi all’evento che ci ha fatto provare tristezza, facendoci sentire ancora più tristi, in un circolo vizioso che, oltre ad influenzarne la durata ne influenza anche l’intensità.
Quando la tristezza perdura e l’intensità è molto alta, potremmo trovarci bloccati, non vedere più le nostre risorse, sentirci persi, incapaci di fare scelte e di risollevarci. Questo potrebbe essere il paesaggio emotivo del cliente che si rivolge al consultorio.
Il consulente familiare accoglie, ascolta e accompagna la persona che vive una situazione di disagio e sofferenza in un percorso (9-10 incontri), durante il quale il cliente si può dare il permesso di riconoscere la tristezza, di accettarla, di accoglierla ed esprimerla. In questo cammino il consulente non precede e non segue la persona, ma le sta affianco per illuminare il suo cammino affinché possa ritrovare le sue risorse e fare scelte autonome.
Antonella Monacelli Consulente Familiare Consultorio La Famiglia di Palazzo di Assisi
Quando ci viene in aiuto chiederci “Che tempo sono?”
Quando parliamo di tristezza, l’etimologia delle parole ci viene in aiuto: essere tristi deriva da termini latini che rimandano al significato di “ruvido”, “torbido”, “scuro”.La tristezza sembra rimandare ad un paesaggio emotivo piuttosto sgradevole, “scomodo” e, al tempo stesso, oscuro e confuso. Come il paesaggio è fatto di primo piano, sfondo, colori con gradazioni e tonalità diverse, anche quello interiore è fatto di intensità e sfumature diverse. Se domandiamo a più persone, qual è per loro il colore della tristezza, per lo più ci sentiamo rispondere che va dal grigio chiaro, grigio più scuro, grigio intenso, fino ad arrivare al viola e nero. Spesso a scuola quando vedo gli alunni agitati, arrabbiati o visibilmente tristi, chiedo loro di prendere un foglio e rappresentare graficamente “ Che tempo sono”. Vengono fuori, metaforicamente parlando, diversi tempi metereologici. C’è il bambino cielo sereno, quello nuvoloso, il bimbo nebbia, l’alunno temporale… questo per dire che per definire il nostro sentire usiamo una pluralità di nomi ed espresioni.
Possiamo dire di sentirci “dispiaciuti” se viviamo qualcosa che mette a rischio la relazione con qualcuno, come per esempio l’altro ha detto o fatto qualcosa che ci ha ferito, oppure siamo noi che abbiamo fatto star male l’altro.
Possiamo usare la parola “delusi” che è ancora una sfumatura più intensa, quando si aveva un’aspettativa su altri o su se stessi che non si è realizzata.
A livello di gruppo possiamo sentirci “rifiutati” quando non ci sentiamo considerati oppure possiamo sentirci esclusi se per esempio gli amici non ci invitano al cinema o non parlano con noi.
Vi è poi la “nostalgia” collegata al concetto di mancanza di qualcosa o qualcuno. Quando invece la persona sta male perché le manca qual- cosa, ma non sa individuare cosa, è probabile che si tratti di “malinconia”.
Se la tristezza è collegata al concetto di incapacità proviamo la sensazione essere incompetenti a fare qualcosa. Questa emozione nasconde in sé un giudice interiore molto attivo che rischia di minare la nostra autostima.
Vi è poi la tristezza collegata al mancato raggiungimento di un obiettivo e quindi ci si può sentire “sfiduciati”: si crede di non potercela fare.
Si può dire che ci si sente “insoddisfatti” o addirittura “delusi” quando non siamo riusciti a terminare un compito in tempo, o la qualità del risultato non ci soddisfa, oppure ancora perché il lavoro è stato criticato.
Quando ci sentiamo in tristi, proviamo a chiederci non solo “Che tempo sono”, come faccio con i miei alunni, ma anche che tristezza sento. La persona in difficoltà nel comprendere pensieri ed emozioni può rivolgersi al consultorio, dove, attraverso la relazione d’aiuto,può dar voce ai silenzi più tristi, tornare ad assumersi la responsabilità della propria vita e ad avere fiducia nelle proprie risorse interiori.
Antonella Monacelli Consulente Familiare Consultorio La Famiglia di Palazzo di Assisi